Chitarre signature e patriarcato

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Esistono regni più pervasi dall’odore del patriarcato di altri. Alcuni dei più ardui da abitare sono quelli nei quali il discorso dominante consiste in plurime declinazioni della gara a Chi Ce l’Ha Più Lungo. Dall’alta pasticceria francese alla club culture, passando per il gaming, le donne e le persone non-binary sono sistematicamente sottoposte ad uno scrutinio volto a mettere in discussione la loro legittima partecipazione a tali realtà sociali. Praticare un hobby o una professione che dovrebbe dare piacere rischia allora di diventare un percorso ad ostacoli, irto di quiz, battutine, insulti e lagne di chi rimpiange un’ipotetica età dell’oro in cui “le femmine” non avevano ancora rovinato la possibilità di trovarsi tra soli uomini per godere di una quanto mai necessaria Nicchia Maschile.

(continua a leggere su Soft Revolution)

Pioniere della musica elettronica

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Da qualche tempo, ho iniziato a studiare la storia di diverse pioniere della musica elettronica. Tutto è cominciato con un articolo su Delia Derbyshire, commissionato a Gianlorenzo per Soft Revolution.
Si è trattato del primo capitolo di una rubrica senza nome e scadenza regolare.

Finora ho scritto di Daphne Oram e Clara Rockmore, mentre la quarta parte, dedicata a Teresa Rampazzi, è in uscita nelle prossime settimane.

Ora mi sto chiedendo chi si sarà la quinta. Wendy Carlos? Pauline Oliveros? Un’artista che ancora non conosco?

Se avete suggerimenti da darmi, fatelo nei commenti.

***

A Teresa Rampazzi ho dedicato anche il primo numero di Computer Dances, una fanzine interamente dedicata al contributo delle donne allo sviluppo della musica elettronica. Si tratta della mia prima zine in inglese.

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Le mie fanzine su Etsy

Da oggi le mie fanzine sono in vendita anche su Etsy.

Questa è la descrizione del numero 3, il più recente:

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Fanzine assemblata sul finire dell’inverno, in quel di Bergamo. L’accesso al presunto spazio-tempo dell’adultità mi ha impedito di condividere online ciò che avrei voluto. Ne è seguita una certa solitudine.
Questa fanzine contiene ciò che, durante le settimane del disgelo, non ho avuto il coraggio di scrivere/dire altrove.

Temi principali: sogni, disforia, corpo

fragile o incazzata o pigra

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Moonassi

 

Sto valutando da mesi dove trasferirmi. Ho deciso una città, ma non so ancora cosa fare con la mia presenza fisica online.

Sono facile da trovare. I miei scritti sono firmati con nome e cognome. Per anni mi sono manifestata dichiarando a gran voce che quelle parole erano proprio mie. Mi sono abituata a dire tutto, fino a che la vulnerabilità non è divenuta duplice.
Non solo la costruzione meticolosa di periodi che esponessero la complessità del mio stare al mondo, ma anche l’agilità con cui è diventato possibile individuarmi.

Ho deciso che non voglio più correre questo rischio. Non dopo che il mio blog e il suo stile sono stati usati contro di me durante colloqui di lavoro. Non quando il sistema è mutato, facendosi portatore di un nuovo paradigma entro il quale i motivi che mi spinsero ad aprire un blog più di dieci anni fa sembrano essere venuti meno.
Non posso più scrivere e condividere quello che voglio veramente senza che questo si ritorca contro di me in modo brutale e impossibile da arginare. Ho abbandonato questo blog per un anno intero dopo essermene resa conto.
Non mi era più concesso essere fragile o incazzata o pigra usando il mio vero nome.

Ho evitato l’anonimato molte volte perché temevo di perdere il mio piccolo pubblico. Le persone che non si sono mai manifestate, ma che mi seguono da anni. Quelle che hanno commentato solo una volta.
Mi è già capitato di dover sparire, ma sono sempre tornata facendo in modo di essere rintracciabile.
Penso ai mesi interi dedicati alla scrittura, alle migliaia di post, alla reputazione che mi sono costruita e non so cosa fare.

L’unica certezza è che anche la rete è divenuta, per me, un terreno a tratti inospitale.

Fearless was my middle name

http://todoelajo.tumblr.com

http://todoelajo.tumblr.com

A colazione ho ascoltato un’intervista a Phil Elverum che mi ha fatto venire voglia di mangiare salmone e ostriche.

Durante la mattinata ho mandato una domanda di lavoro e poi mi sono rimessa a studiare per un concorso pubblico.

Dopo pranzo ho suonato un sacco di volte l’ultima canzone che ho scritto. Per il momento credo che ci stia bene una bella distorsione con sfondo di Organizer impostato sui toni più cupi, ma dovrei testare le impostazioni in sala prove a volumi decenti per esserne sicura. Ad ogni modo, suonarla mi rende molto felice perché non mi era mai successo di comporre un pezzo senza esserne schifata poche ore dopo averlo “concluso”.

Nel corso della giornata ho ascoltato l’ep omonimo degli autunno, il nuovo album dei Built to Spill e Lost Wisdom di Mount Eerie.

Sono uscita di casa da sola senza che il processo decisionale e di vestizione diventasse una lunga agonia. Non mi succedeva da parecchio tempo. Sono andata al supermercato per comprare del lievito e la lettiera per Sofficina.

Ho finito di leggere le ultime pagine di Educazione Siberiana, che nel complesso non mi è piaciuto granché.

Nel tardo pomeriggio ho scoperto che uno dei miei racconti si è posizionato bene all’interno di un concorso letterario al quale avevo partecipato senza pensare neanche per un secondo che il mio scritto sarebbe stato accolto così favorevolmente.
Ho passato mezz’ora buona a soppesare la mia reazione; un misto di incredulità e senso di fallimento, perché le circostanze continuano a costringermi all’interno di uno spazio-tempo in cui tutto ciò che non è monetizzabile ha cessato di avere valore, e io sono “troppo vecchia”.

Dopo cena mi sono addormentata senza rendermene conto.
Credo di essere rimasta in posizione fetale per poco più di mezz’ora.

Alla fine ho guardato Wild, che mi è piaciuto molto. Ho pianto in corrispondenza di ogni singola scena in cui compare la volpe, perché le volpi mi fanno piangere e non mi so controllare.
Durante i titoli di coda c’è una cover molto bella di Walk Unafraid ad opera di First Aid Kit. Walk Unafraid è una delle mie canzoni preferite dei R.E.M..

Piedi scalzi per ascoltare le ombre

Ora che mi sono trasferita e che ho trovato un lavoro, il tempo di cui necessito per scrivere pare essersi volatilizzato. Mi scopro afona ogni sera. Durante le giornate più dure, lo spettacolo si ripete anche in ufficio. Lingua informicolata e domande martellanti. “Quanto tempo prima che io imploda di nuovo?”

Il terrore che provo si origina forse nella consapevolezza di essere una scrittrice lenta, una di quelle che consumano dita, occhi e notti intere sul tentativo di rendere pronunciabile uno stridore che è solo disagio fisico, irrigidimento, rabbia, vuoto, vergogna e sogno. Ora sento che è scattato qualcosa in me, qualcosa che banalmente definirei istinto di conservazione. Mi costringe a non andare a dormire alle quattro. Mi ricorda quando è difficile resistere in ufficio fino alle sei senza iniziare ad urlare. Poi, certo, c’è tutto il resto, ovvero la storia secondo la quale sono un animale che deve aprire bocca per conservarsi integro, e sono anche un animale che, attraverso l’ascolto delle vibrazioni del suolo, sa riconoscere l’avanzata delle ombre.

Ora le sento, anche se durante certe giornate fingo di ignorarle. Oggi sono rimasta a casa dal lavoro perché sto male: un mal di testa martellante e la costante sensazione di poter svenire da un momento all’alto. Quindi le sento, ormai giunte nei quartieri confinanti con il mio, che ancora non conosco. Le sento perché ho i piedi scalzi e la finestra spalancata. Ho provato a chiedere in giro come fermarle, ma nessuno mi ha saputo dare una risposta.

Getting free is a whole different journey altogether

“A long time ago, when you were a wee thing, you learned something, some way to cope, something that, if you did it, would help you survive. It wasn’t the healthiest thing, it wasn’t gonna get you free, but it was gonna keep you alive. You learned it, at five or six, and it worked, it *did* help you survive. You carried it with you all your life, used it whenever you needed it. It got you out—out of your assbackwards town, away from an abuser, out of range of your mother’s un-love. Or whatever. It worked for you. You’re still here now partly because of this thing that you learned. The thing is, though, at some point you stopped needing it. At some point, you got far enough away, surrounded yourself with people who love you. You survived. And because you survived, you now had a shot at more than just staying alive. You had a shot now at getting free. But that thing that you learned when you were five was not then and is not now designed to help you be free. It is designed only to help you survive. And, in fact, it keeps you from being free. You need to figure out what this thing is and work your ass off to un-learn it. Because the things we learn to do to survive at all costs are not the things that will help us get FREE. Getting free is a whole different journey altogether.”

Mia McKenzie

Niente più Giovanna d’Arco

Nella mia stanza troneggiano due vecchie librerie a vetrinetta. La più antica è quella in cui conservo i pochi libri e dischi giunti con me a Trento, insieme ad un ukulele blu che il mio corpo si ostina a rifiutare. Ai piedi del mobile: scarpe, scatoloni e imballaggi. Sulla sommità: stessa scena, meno che le calzature.
L’altra libreria è stata a lungo la sede degli scarti. Quando la vidi per la prima volta pensai di coprirla con un drappo, ma lo spazio serve e io sono una che fatica a buttare le cose, sono una che ricicla i cavi rotti dopo averli lasciarti a prendere polvere per tre anni, sono una che con i cavi rotti ci fa gli espositori storti per bambole con la testa a forma di fiore.
L’altra libreria è quella brutta, dunque. La discarica.
Abbiamo convissuto per un anno, prima che decidessi di farne il magazzino delle fanzine. La sede dell’invenduto.

La mia fanzine è stata acquistata quasi esclusivamente da persone che mi conoscono e che mi leggono regolamente. Le cose che ho scritto, le ho scritte pensando a loro. Lì ho concentrato parte di ciò che è diventato troppo arduo condividere online, perché Giovanna d’Arco ha smesso da tempo di vegliare su di me.

Uno degli ultimi ordini giunti al mio negozietto digitale indicava come indirizzo di spedizione un luogo in cui ero stata a fare un colloquio di lavoro. Quel giorno pioveva così tanto che le strade erano allagate e nell’aria si respirava ansia da alluvione. Io pensavo all’accostamento di risaie e pareti finestrate da terziario avanzato. Nella mano destra stringevo un ombrello economico, che alle mie spalle danzava come un pipistrello importunato da un fascio di luce. Credo esistano manuali contenenti capitoli dedicati alla prevenzione di quello scenario: fradicia e con una carcassa tra le dita, nel corso di una mattinata dedicata alla celebrazione delle proprie doti.

Come sono creativa, affidabile, disposta a sacrificarmi per la causa, incurante dell’ammontare dell’ipotetico stipendio. Come sono stata precoce. Non occorre che citi la lista delle mie pubblicazioni. So fare queste altre cose. Sono tantissime. So usare questo software brutto, anche se mi manca il certificato del seminario su di esso che ho seguito, perché ero troppo impegnata a vincere una borsa di studio per gli Stati Uniti per consegnare l’ultimo assignment in tempo. In triennale ho fatto anche un esame attraverso il quale ho inteso i rudimenti delle tecniche di selezione del personale. Sono così brava che riesco a capire subito dove sto sbagliando. Sto citando esempi errati rispetto al mio scopo finale, ma splendidamente appropriati nel processo di ricostruzione della mia storia messo in atto dalla recruiter. Sto mostrando la carne viva. Ciò che vado scrivendo da anni, sospeso a mezz’aria, a sfiorare le vicende umane di tre persone di cui non so nulla, e che dopo il colloquio non mi richiameranno.

Lo sforzo consiste nel trovare un senso ad eventi e persone accumulate nel corso di anni ed anni, che a contarli ti sale una mistura di conati e voglia di abbracciarsi da sole, per il coraggio, gli esami terribili dati con successo, le exit strategy pirotecniche. Lo sforzo è mistico. Lo sforzo è ossessivo-compulsivo. Costruire una narrazione logica attorno a quegli eventi e a quelle persone. Una narrazione corale, perché hai troppe voci in testa, sei un ventaglio di umanità.
Tanto per cominciare, scrivi in un modo e parli un altro. Scrivi in dieci modi e parli in un altro. Lo sforzo consiste nel preservare le apparenze, senza ridurre la complessità. Sai quanto è difficile. So quanto è difficile.

La fanzine in cui parlo del mio corpo nel bagno del vecchio ufficio. Eccomi intenta a ingoiare due frasi umilianti insieme al brodo salato di lacrime. Eccomi irrigidita, mentre mi masturbo trattenendo il fiato, mentre fuori c’è aria di neve e dentro le mie ossa sono sospese nel vuoto, sono Geremia; sono sola e compongo in rima. Eccomi dilaniata dai postumi della mia festa di laurea, durante la quale mi sono resa ridicola e ho ricevuto un orsetto lavatore dai miei amici.
Ecco il mio corpo fotocopiato sulla scrivania di un ufficio dalle pareti finestrate.

Al colloquio avevo ammesso di nutrire timore nei confronti di certi tipi di spostamenti, come quelli che prevedono un pernottamento, cinque pernottamenti, centocinquanta pernottamenti. La domanda chiedeva l’evocazione di episodi di disagio. Contavo di rispondere mostrandomi reattiva, propositiva, abile nella programmazione. Ma anche l’ultimo degli agnelli sa che non è bene dare ad intendere la possibilità di attacchi di panico, quando si sta tentando di ottenere un lavoro.

Ma io sono così interessante, complicata, imperfetta. Sono un uomo affascinante, dalla barba incolta, nella pubblicità di un liquore qualsiasi. Ho imparato a ordinare e a bere il whisky correttamente, dopo aver guidato per centinaia di chilometri in preda ad una follia dalla grana cinematografica. La colonna sonora era perfetta – canzoni su incidenti stradali – e io ero uno dei miei personaggi, quello che va a farsi ammazzare, perché i finali tragici sono meglio. Io sono quella che porta a compimento una missione suicida pregustando come sarà scriverne, collegare i puntini, dare stabilità all’impalcatura che fluttua sul precipizio.

Collegare i puntini è un esercizio iniziato da adolescente, per spiccare il volo e abbandonare la periferia dell’impero. Chiudendo gli occhi mi sentivo veramente altrove. Spalancandoli vedevo tutto con chiarezza: ero un volatile con una catenella molto lunga al collo.
Ora al gioco dei puntini ci torno perché a livello narrativo funziona meglio di un discorso sulle tendenze generali, gli outlier e le deviazioni standard. Suona meglio. Nella mia testa è più vero. Posso scorgere altre persone intente a riconoscersi in un testo all’interno del quale spiego di aver trovato il coraggio di andare a Roma da Trento, in auto con degli sconosciuti, nella mera voglia di scopare che mi stava traforando il cervello. Posso udire sussulti oltre la superficie delle pagine, e il silenzio sospetto del fiato trattenuto troppo a lungo, quando arrivo a parlare del letto in prestito, ai piedi del quale ci sono avvallamenti di vestiti accartocciati e fazzoletti sporchi, e sulla cui superficie bianca ci siamo io e il ragazzo di cui parlo nella fanzine. Se non avessi unito i puntini, la situazione non mi apparirebbe così assoluta e irripetibile, così traducibile in un approdo vero. Al contempo, conoscendo la colorazione rosea delle storie in cui il lieto fine è preceduto da altre circostanze liete, mi aspetto la tempesta.

Non arrendersi (in un pigiamino scoordinato)

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La disoccupazione rende il mio umore fluttuante.
Me ne sto rintanata a Trento ad aspettare che delle idee interessanti si formino nella mia testa, a mandare domande di lavoro, studiare bandi, report e libri di varia natura.

Dopo anni di sedentarietà, giustificata con gli impegni universitari, ho ricominciato a correre e ad andare in piscina. Mi pare che aiuti, o per lo meno che compensi le serate consumate attorno a birre economiche e strumenti musicali suonati male.

Non passa giorno senza che mi trovi a constatare che il mio problema, a conti fatti, è sempre stato avere troppe passioni in contemporanea, ed essere volubile. Aspiro a conoscere tutto degli ambiti che catturano la mia attenzione, ma il completismo non è mai stato il mio forte. Questo fa di me una buona conversatrice da salotto, ma si traduce in un curriculum vitae schizofrenico e in potenziali datori di lavoro che dichiarano di non comprendere il biforcarsi della mia storia.
Ad esempio, sono ormai otto anni che mi viene chiesto perché non ho studiato Lettere. Ogni volta io rispondo che la ricerca sociale era il mio inevitabile approdo. Senza la mia formazione sociologica non sarei mai arrivata ad edificare Soft Revolution con le mie amiche, ma questo non è così automatico da comprendere.

Se non ricordo male, l’aveva detto già Durkheim nel 1893 (ne La divisione del lavoro sociale), che i processi di specializzazione tipici della modernità avrebbero portato a vantaggi non da poco (in ambito industriale, ad esempio) e a crisi esistenziali assai colorite, nelle persone come me. Io vorrei altre sei o sette vite per fare tutto quello che mi piace, senza dover sacrificare nulla, e portandomi a casa i soldi per campare dignitosamente.

Poi, certo, spesso capitano le giornate oscure, in cui mi pare di non saper fare niente, perché ho studiato una cosa che sul mercato del lavoro italiano viene valutata poco, o perché la mia esperienza editoriale è asistematica, ufficiosa. Ciononostante non sono capace di stare ferma, e allora tra un progettino e l’altro capita che mi vengano delle idee belle, magari mentre sto andando all’ufficio postale a spedire delle fanzine o facendo lo slalom di corsa tra i vecchietti che passeggiano prima di cena.
Quelli sono i momenti in cui riesco a scrollarmi di dosso la falsa impressione di apparire già arresa (principalmente perché passo molto tempo nei miei pigiamini scoordinati, che poi spesso sono vecchie magliette di band tanto amate), e in cui le mie plurime passioni trovano un equilibrio e una loro reciproca sensatezza.

L’ultima idea alla quale sto lavorando e che vorrei trasformare nella base di un impiego vero ha a che fare con Soft Revolution e il mio eterno ritorno agli spazi e alle esperienze associati agli anni della scuola dell’obbligo (medie inferiori e superiori in particolar modo).

Insomma, io ci provo, almeno per un altro po’, perché voglio essere sicura di aver tentato ogni singola via, prima di spostarmi altrove.

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Un esempio di invasione del mio spazio vitale (1 maggio 2014, Trento)

Donna terzomondista sulla quarantina mi chiede di ballare.
Sono di granito. La invito a desistere.
Donna terzomondista dalle ampie vesti azzurre mi tocca le mani.
Non mi so divertire. La invito a desistere.
Donna terzomondista dagli arti flessuosi mi bacia una guancia.
“Grazie”, le dico.