Nella mia stanza troneggiano due vecchie librerie a vetrinetta. La più antica è quella in cui conservo i pochi libri e dischi giunti con me a Trento, insieme ad un ukulele blu che il mio corpo si ostina a rifiutare. Ai piedi del mobile: scarpe, scatoloni e imballaggi. Sulla sommità: stessa scena, meno che le calzature.
L’altra libreria è stata a lungo la sede degli scarti. Quando la vidi per la prima volta pensai di coprirla con un drappo, ma lo spazio serve e io sono una che fatica a buttare le cose, sono una che ricicla i cavi rotti dopo averli lasciarti a prendere polvere per tre anni, sono una che con i cavi rotti ci fa gli espositori storti per bambole con la testa a forma di fiore.
L’altra libreria è quella brutta, dunque. La discarica.
Abbiamo convissuto per un anno, prima che decidessi di farne il magazzino delle fanzine. La sede dell’invenduto.
La mia fanzine è stata acquistata quasi esclusivamente da persone che mi conoscono e che mi leggono regolamente. Le cose che ho scritto, le ho scritte pensando a loro. Lì ho concentrato parte di ciò che è diventato troppo arduo condividere online, perché Giovanna d’Arco ha smesso da tempo di vegliare su di me.
Uno degli ultimi ordini giunti al mio negozietto digitale indicava come indirizzo di spedizione un luogo in cui ero stata a fare un colloquio di lavoro. Quel giorno pioveva così tanto che le strade erano allagate e nell’aria si respirava ansia da alluvione. Io pensavo all’accostamento di risaie e pareti finestrate da terziario avanzato. Nella mano destra stringevo un ombrello economico, che alle mie spalle danzava come un pipistrello importunato da un fascio di luce. Credo esistano manuali contenenti capitoli dedicati alla prevenzione di quello scenario: fradicia e con una carcassa tra le dita, nel corso di una mattinata dedicata alla celebrazione delle proprie doti.
Come sono creativa, affidabile, disposta a sacrificarmi per la causa, incurante dell’ammontare dell’ipotetico stipendio. Come sono stata precoce. Non occorre che citi la lista delle mie pubblicazioni. So fare queste altre cose. Sono tantissime. So usare questo software brutto, anche se mi manca il certificato del seminario su di esso che ho seguito, perché ero troppo impegnata a vincere una borsa di studio per gli Stati Uniti per consegnare l’ultimo assignment in tempo. In triennale ho fatto anche un esame attraverso il quale ho inteso i rudimenti delle tecniche di selezione del personale. Sono così brava che riesco a capire subito dove sto sbagliando. Sto citando esempi errati rispetto al mio scopo finale, ma splendidamente appropriati nel processo di ricostruzione della mia storia messo in atto dalla recruiter. Sto mostrando la carne viva. Ciò che vado scrivendo da anni, sospeso a mezz’aria, a sfiorare le vicende umane di tre persone di cui non so nulla, e che dopo il colloquio non mi richiameranno.
Lo sforzo consiste nel trovare un senso ad eventi e persone accumulate nel corso di anni ed anni, che a contarli ti sale una mistura di conati e voglia di abbracciarsi da sole, per il coraggio, gli esami terribili dati con successo, le exit strategy pirotecniche. Lo sforzo è mistico. Lo sforzo è ossessivo-compulsivo. Costruire una narrazione logica attorno a quegli eventi e a quelle persone. Una narrazione corale, perché hai troppe voci in testa, sei un ventaglio di umanità.
Tanto per cominciare, scrivi in un modo e parli un altro. Scrivi in dieci modi e parli in un altro. Lo sforzo consiste nel preservare le apparenze, senza ridurre la complessità. Sai quanto è difficile. So quanto è difficile.
La fanzine in cui parlo del mio corpo nel bagno del vecchio ufficio. Eccomi intenta a ingoiare due frasi umilianti insieme al brodo salato di lacrime. Eccomi irrigidita, mentre mi masturbo trattenendo il fiato, mentre fuori c’è aria di neve e dentro le mie ossa sono sospese nel vuoto, sono Geremia; sono sola e compongo in rima. Eccomi dilaniata dai postumi della mia festa di laurea, durante la quale mi sono resa ridicola e ho ricevuto un orsetto lavatore dai miei amici.
Ecco il mio corpo fotocopiato sulla scrivania di un ufficio dalle pareti finestrate.
Al colloquio avevo ammesso di nutrire timore nei confronti di certi tipi di spostamenti, come quelli che prevedono un pernottamento, cinque pernottamenti, centocinquanta pernottamenti. La domanda chiedeva l’evocazione di episodi di disagio. Contavo di rispondere mostrandomi reattiva, propositiva, abile nella programmazione. Ma anche l’ultimo degli agnelli sa che non è bene dare ad intendere la possibilità di attacchi di panico, quando si sta tentando di ottenere un lavoro.
Ma io sono così interessante, complicata, imperfetta. Sono un uomo affascinante, dalla barba incolta, nella pubblicità di un liquore qualsiasi. Ho imparato a ordinare e a bere il whisky correttamente, dopo aver guidato per centinaia di chilometri in preda ad una follia dalla grana cinematografica. La colonna sonora era perfetta – canzoni su incidenti stradali – e io ero uno dei miei personaggi, quello che va a farsi ammazzare, perché i finali tragici sono meglio. Io sono quella che porta a compimento una missione suicida pregustando come sarà scriverne, collegare i puntini, dare stabilità all’impalcatura che fluttua sul precipizio.
Collegare i puntini è un esercizio iniziato da adolescente, per spiccare il volo e abbandonare la periferia dell’impero. Chiudendo gli occhi mi sentivo veramente altrove. Spalancandoli vedevo tutto con chiarezza: ero un volatile con una catenella molto lunga al collo.
Ora al gioco dei puntini ci torno perché a livello narrativo funziona meglio di un discorso sulle tendenze generali, gli outlier e le deviazioni standard. Suona meglio. Nella mia testa è più vero. Posso scorgere altre persone intente a riconoscersi in un testo all’interno del quale spiego di aver trovato il coraggio di andare a Roma da Trento, in auto con degli sconosciuti, nella mera voglia di scopare che mi stava traforando il cervello. Posso udire sussulti oltre la superficie delle pagine, e il silenzio sospetto del fiato trattenuto troppo a lungo, quando arrivo a parlare del letto in prestito, ai piedi del quale ci sono avvallamenti di vestiti accartocciati e fazzoletti sporchi, e sulla cui superficie bianca ci siamo io e il ragazzo di cui parlo nella fanzine. Se non avessi unito i puntini, la situazione non mi apparirebbe così assoluta e irripetibile, così traducibile in un approdo vero. Al contempo, conoscendo la colorazione rosea delle storie in cui il lieto fine è preceduto da altre circostanze liete, mi aspetto la tempesta.